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I centri abitati - Sorne
Tratto da Brentonico e il Monte Baldo
di Giuseppe Gorfer – Edizioni Cierre
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Il profondo solco della Sorna crea un panorama spettacolare sui ripiani di Cornè, su quello di Tragno e sui vigneti della valle, dove laggiù sul fondo si può intravvedere il cosidetto
" Pont del Diaol ". L'audacia costruttiva del Pont del Diaol, gettato sui labbri della arditissima gola della Sorna, è un segno del paesaggio magico brentonicano. Il capitello costruito presso una delle spallette, è il convincente momento materiale di una oscura tragedia accaduta nel passato e tramutatasi poi in leggenda.
Sulla stessa dorsale ma collocato in fondo alla Val Sorne, si trova la frazione che dà il nome appunto alla valle: Sorne. Il Villaggio delle Sorne è soprattutto noto per la presenza, una volta numerosa, di mulini ad acqua. Attualmente solo il mulino Zeni conserva le ruote idrauliche. Fu l’ultimo a sospendere l’attività molitoria, tuttora praticata per usi familiari. Altri mulini e fucine sorgevano lungo il torrente Sorna e il torrente Fontèchel.
Le case delle Sorne sono ad aggregati sparsi per lo più in sponda sinistra del torrente, quella più soleggiata. I nuclei di case principali sono comunque due: ai Bertòi , su in alto, e Le Fraìne, sulla strada per Cornè nei pressi del torrente. Le case sono ancorate ad uno sperone di roccia a picco sul torrente, perciò per chi le guarda presentano l'aspetto di fortezza medioevale. La contrada dei Bertòi ricorda il maso trentino. Il termine “maso” è presente nella parlata di Brentonico come “mass”, dove equivale a casolare, in origine annesso agli spazi agricoli, quindi ai luoghi di lavoro. Era in gran parte completamente autosufficiente.
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Nel 1541 le Sorne sono menzionate tra le ville di Brentonico. Nel secolo successivo (1615-1616), la vicinia eresse neòòa contrada bassa, a monte della vecchia strada di Cornè ( che è quella attuale ), un piccolo oratorio al titolo di S. Carlo Borromeo. Vi si pose un piccolo altare che però era sprovvisto di pietra sacra. Più tardi il vecchio altare fu sostituito con uno di legno sul quale si celebrava la messa festiva con l’assenso del pievano di Brentonico essendo i luoghi isolati e le strade di difficoltoso cammino.
Sorne ha una chiesetta dedicata a S. Carlo, fabbricata gli ultimi anni del secolo XVII, che per arte architettonica vale ben poco.Questa frazione ebbe il diritto di eleggersi un Consigliere per il Consiglio della Magnifica Comunità dopo la distruzione di Fano (1648), e non ebbe mai un proprio Curator d’anime.
La chiesetta di S.Carlo Borromeo è menzionata a partire dal primo decennio del XVII secolo. La breve storia della chiesa si completa con l’erezione della sacristia eseguita sempre a spese della comunità locale. L’edificio ha conservato la sua serena atmosfera di chiesetta di villaggio montano,discosto dalle grandi strade di comunicazione. E’ posta sul breve ripiano delle Sorne Basse ancorate sulla rupe strapiombante, lambita dal torrente Sorna. La data 1694 dipinta sopra la porta si riferisce alla donazione di “due bene” di calce concessa ai massàri della chiesa dalla Magnifica Comunità di Brentonico. La scritta sul cartiglio retto da due angeli dipinti sulla parete di fondo documenta i restauri del 1959-1961 e l’autore della decorazione pittorica. L’altare è di marmi castionesi ed il pannello di legno scolpito e dipinto sovrastante raffigura S. Carlo Borromeo, il patrono della piccola frazione.
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Mulino Zeni
Biblioteca comunale Brentonico
La Grafica S.r.L Mori (Tn)
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Il torrente Sorna si forma nella Valle della Sorna per confluire nell’Adige presso Chizzola. Il suo percorso, a tratti scosceso e dalle caratteristiche forme torrentizie, ha una portata d’acqua a carattere strettamente stagionale con forti piene nel periodo del disgelo e in occasione di violenti acquazzoni o persistenti piogge, alternate a periodi di magra, specialmente in estate. Lungo il suo corso numerosi erano gli opifici, mulini, fucine, segherie, che attraverso i canali idraulici utilizzavano l’acqua della Sorna per l’azionamento delle grandi ruote. La presenza dei mulini nella valle della Sorna è documentata da molto tempo; la prima citazione antica che conferma detta presenza risale al 1285 nella pubblicazione di “La vita dei mulini” di Giuseppe Sebesta, quando viene citato “Molendinus quod est in Sorna”. Un tempo la valle era intensamente coltivata. Accanto alle fiorenti culture dei cereali, erano presenti altre coltivazioni agricole come il gelso, il tabacco, le patate, la frutta e la vite: di conseguenza frequenti erano i mulini, le fucine, le segherie. Nel periodo di maggior splendore, nel secolo scorso, la tradizione ricorda il funzionamento contemporaneo di 17 mulini. Di questi mulini solamente quello dei Zeni è ancora funzionante. Degli altri non resta che la distribuzione tipologica dei fabbricati e la loro posizione lungo il torrente a ricordare l’antica attività. Raramente sono ancora presenti alcuni elementi come le macine in pietra, abbandonate nei pressi dell’edificio. L’importanza dell’opera di preservazione non solo dell’edificio, ma anche dell’attività molitoria del molino Zeni, è quindi estremamente rilevante come memoria storica non solo della passata attività ma anche del clima sociale ed economico del quale il molino era in un certo qual modo lo specchio.
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L’importanza dell’opera di preservazione non solo dell’edificio, ma anche dell’attività molitoria del molino Zeni, è quindi estremamente rilevante come memoria storica non solo della passata attività ma anche del clima sociale ed economico del quale il molino era in un certo qual modo lo specchio. Degli oltre mille mulini storici sul territorio trentino, in uso per la macinazione dei cereali e la spulatura degli orzi, il Mulino Zeni è uno dei pochi ancora perfettamente in funzione. È dotato di una grande ruota a cassette e di una più piccola in ferro, strutture molitorie con mole francesi in smeriglio, congegni per l’abburattamento della farina. Nel corso dell’Ottocento in molte zone d’Italia vennero eretti mulini ed il Trentino, da questo punto di vista, non ha fatto eccezione, tanto che ancora oggi l’intera provincia è costellata di tracce che testimoniano la presenza, e l’attività, di queste imponenti strutture.
Tuttavia, delle quasi mille che si potevano contare su questo territorio intorno all’Ottocento, ad essersi conservate perfettamente ve ne sono poche. Fra queste merita sicuramente una visita il Mulino Zeni, realizzato nel 1806 in località Sorne a Brentonico, utilizzato ancor oggi per scopi didattici e dimostrativi. Una longevità che si spiega con l’utilizzo di questo macchinario, fino a non molti anni fa, per lo spezzettamento del mais, base per i mangimi destinati all’avicoltura.
Ad essere diffuso era soprattutto il mulino vitruviano, che si trovava un po’ ovunque nelle valli del Trentino, presso piccoli e grandi corsi d’acqua di cui il nostro territorio abbonda. Si tratta di una macchinario caratterizzato da palmenti, grosse macine in pietra, che prende il nome da Vitruvio, un contemporaneo di Cesare, esperto in agricoltura ed idraulica, al quale se ne fa risalire l’invenzione.
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L'idea di imbrigliare la forza dell'acqua per azionare macchinari ed utensili risale a tempi remotissimi e la sua applicazione pratica, rappresentata dai mulini, ha caratterizzato l’economia di molti paesi per almeno 2000 anni. Un’usanza caduta in disuso, ma che in Trentino è possibile rivivere grazie al Mulino Zeni, dotato di una grande ruota a cassetta e di una più piccola in ferro, nonché di grandi strutture con moli francesi in smeriglio e di enormi congegni per l’abburattamento della farina. Sicuramente il mugnaio ha sempre svolto un ruolo fondamentale nella vita socio economica di una comunità.
Dove c’erano case c’era sempre un mulino. Il mulino rappresentava il primo anello della trasformazione alimentare dei prodotti agricoli, e di un locale, ma fondamentale sistema economico commerciale. Con il finire degli anni sessanta inizia l’abbandono delle campagne di Brentonico con il conseguente cessare della produzione cerealicola. Il mulino, da produttore di farina conto terzi, diventa luogo di macinazione e vendita diretta, acquistando una vera e propria valenza commerciale.
Questa proseguì fino agli inizi degli anni ’90 quando la macinazione di granoturco servì solo per produrre alimenti per gli animali da cortile ad uso esclusivamente familiare. Gli Zeni hanno comunque sempre pagato la concessione governativa di prelievo ed utilizzo dell’acqua per il funzionamento del mulino mantenendo una tradizione fortemente viva nella mente di tutti, sia perché direttamente vissuta, sia indirettamente attraverso le immagini pubblicitarie e culturali.
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Il fabbro ferraio - La forgia
La forgia vecchia e la forgia nuova
Tratto da “Le quattro età della vita”
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Il signor Giovanni faceva il fabbro ormai da quasi 40 anni. Aveva cominciato quando era ancora piccolo nella bottega di suo padre anche lui fabbro. Adesso si sentiva un po’ vecchio, ma lavorava ancora. Oltre a fare il fabbro, infatti, lui faceva anche il maniscalco malgrado ormai nel paese di cavalli da ferrare ce ne fossero pochi. Ma in compenso era l’unico fabbro in tutta una vasta zona che ferrasse ancora i cavalli. Una volta il lavoro di ferrare i cavalli era così richiesto che alcuni fabbri si erano specializzati e facevano solo i maniscalchi.
Anche il nonno di Giovanni faceva solo il maniscalco. Poi suo padre si era messo anche a fare il fabbro perché era diminuito il lavoro di maniscalco. Ma per ferrare un cavallo occorre essere anche un buon fabbro. Per ferrare un cavallo occorre preparare il ferro di cavallo partendo da una barra di ferro, metterla sulla forgia finché il ferro diventa ben rosso, poi prenderlo con le lunghe tenaglie, metterlo sull'incudine e batterlo per assottigliare la barra e per curvarla a ferro di cavallo. Poi di nuovo sulla forgia e sull'incudine per fare dei buchi nel ferro di cavallo da cui entreranno i chiodi che si fissano nello zoccolo. Tutto questo era lo stesso tipo di lavoro per fare, ad esempio, un cancello. Si prendevano delle barre di ferro si scaldavano sulla forgia finché erano rosse, si prendeva poi la barra in due, da una parte il fabbro e dall'altra il garzone e si torceva la barra, come se fosse stata della pasta per fare dei torciglioni di pane. Poi si batteva sull'incudine. Il vecchio Giovanni faceva soprattutto dei lavori di fino, dei lavori artistici di ferro battuto. Era bravissimo a fare delle foglie che poi venivano messe sulle punte dei ferri delle cancellate.
Nella bottega c'erano molti attrezzi, ma soprattutto era importante la forgia. Era un po’ il cuore dell'officina. Il focolare era mobile, appoggiato su quattro gambe di ferro che finivano ciascuno su una ruota di ghisa, bella robusta. Così se necessario si poteva spostare la forgia da un punto all'altro dell'officina. Di fianco al focolare vi era una grande ventola che veniva fatta girare con una manovella. Più si girava svelto e più forte era il soffio d'aria che dalla ventola si immetteva sotto al focolare.
Alla mattina la prima cosa che si faceva era accendere il fuoco nel focolare della forgia. Prendeva della carta e dei pezzi di legno, poi ricopriva tutto con del carbone e poi accendeva con un fiammifero. Appena la fiamma si sviluppava nella carta, faceva girare la ventola e la fiamma diventava più potente, i legni si accendevano e poi a poco a poco anche il carbone. Quando era ben sicuro che il carbone fosse acceso, fermava la ventola, metteva altro carbone sopra, ed ora la forgia era pronta per lavorare. Quando il fabbro metteva sul carbone il ferro allora si riprendeva a far girare la ventola, il carbone diventava rosso e a poco a poco anche il ferro. Poi, da rosso il ferro diventava giallo brillante, quasi bianco. A questo punto si era pronti per battere il ferro sull'incudine, per dargli la forma voluta.
La forgia sentiva l'importanza del proprio ruolo nella bottega. E un po’ era anche vanitosetta. Guardava l'incudine d'alto in basso (infatti era più alta dell'incudine) buono solo, pensava, a prendere delle martellate. Ma se il ferro non fosse stato prima ben ammorbidito nella forgia, tutte quelle martellate non sarebbero servite a niente.
Guardava anche le tenaglie con un po’ di sussiego. Qualche volta poi si divertiva a fare degli sbuffi di fiamma sulle povere tenaglie quando si avvicinavano ai carboni accesi per afferrare il ferro, e così si scaldavano ancora di più di quello che già dovevano fare per tenere fermo il ferro caldo.
Quindi la forgia la faceva un po’ da padrona in bottega. Le cure del fabbro erano tutte per lei. Ogni tanto la ungeva tutta d'olio perchè le sue gambe e le lamiere del focolare non si arrugginissero, ogni tanto rifaceva il letto del focolare con della terra refrattaria e del cemento, oliava l'asse della ventola perchè corresse più veloce e silenziosa, puliva il condotto che dalla ventola arrivava dentro la pancia della forgia fin sotto al focolare.
Ma con tutto quel lavoro che c'era, una forgia sola non bastava più. Occorreva una forgia nuova, anche perchè quella che c'era ormai era vecchia. Malgrado tutto l'olio che gli era stato dato le gambe erano tutte arrugginite, la ventola non tirava più tanto bene, perchè l'asse della ventola con tutto quel girare che aveva fatto per tanti anni si era logorato. Quindi la ventola girando un pò oscillava e se si girava troppo in fretta si metteva a fischiare perchè toccava la parete della chiocciola che la rinchiudeva. Insomma, una seconda forgia sarebbe servita per fare meglio e più in fretta i lavori. La forgia, che non capiva il linguaggio degli uomini, non seppe niente. Così fu una vera sorpresa per lei quando vide un giorno scendere da un carro una forgia tutta nuova fiammante, più grande di lei. Per farle posto venne spostata la vecchia forgia in un angolo della bottega e misero la nuova proprio in centro. Fu un brutto colpo per la vecchia forgia.
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Quel giorno, poi, tutti erano così presi attorno alla nuova forgia, a guardarla, a farle il letto di terra refrattaria che lasciarono spegnere il fuoco nella vecchia forgia. Così quel primo giorno, non solo venne messa in un angolo, ma dovette anche sentire il freddo e l'umiliazione di vedere spegnere il fuoco prima che la bottega venisse chiusa. Normalmente alla sera, quando Giovanni da ultimo chiudeva la bottega - come aveva fatto sempre lui da quasi quarant'anni - c'erano ancora un po’ di carboni accesi nel focolare della forgia e questi, con la serranda abbassata, davano un po’ di luce ancora nella bottega e soprattutto un bel calduccio alla vecchia forgia. Quel giorno invece fece freddo e buio ancora prima che fosse sera.
Se una forgia avesse occhi, lei avrebbe pianto. Ma poiché non ne aveva, non pianse. E così anche la sua dignità ne guadagnò. Cosa avrebbero detto quegli invidiosi delle incudini (ce n'erano tre in bottega) o quelle farfalline delle tenaglie a vederla piangere, lei così altera, così fiera del suo ruolo! Ma per fortuna non poteva piangere.
Dal giorno dopo la vita un po’ cambiò in tutta la bottega.
La nuova forgia oltre che nuova era più grande della vecchia. Era tutta dipinta di rosso per evitare di arrugginirsi. Il soffio che mandava la sua ventola era potente e silenzioso. La manopola della manovella era di gomma e non di legno come nella vecchia forgia.
La nuova forgia troneggiava in mezzo alla bottega come una regina. Così almeno pensava con un po’ d'invidia la vecchia forgia, pensando: "Vediamo, vediamo cosa sa fare, così nuova e così lucente. Dopo un po’ anche lei perderà la vernice, sarà più sporca ed arrugginita."
La forgia nuova era piena di entusiasmo. Per lei quello era il primo lavoro. Aveva tanta buona volontà e voleva mostrare cosa sapeva fare. Non pensava molto alla vecchia forgia, che quasi non vedeva sola nel suo angolo un po’ buio.
Così la vecchia forgia a poco a poco si consolò di essere stata messa da parte. In realtà lavorando con il vecchio fabbro a lavori delicati e un po’ preziosi finiva per sentirsi anche lei un po’ artista. E così invecchiava tranquilla, o quasi. A volte aveva ancora nostalgia dei grandi fuochi, delle grandi martellare attorno, di essere caricata con delle grosse barre di ferro, che occorreva fuoco alto e tempo per renderle rosse a puntino. Ma non se ne lamentava troppo.
Ora la nuova forgia un po’ d'invidia per la vecchia forgia la provava. Perchè qualche volta anche lei non veniva caricata con il carbone di legna, perchè anche lei non veniva usata per fare lavori commissionati da signore gentili e non solo dai rozzi contadini che gridando per farsi sentire e sopra le martellate discutevano con il fabbro su tutto: sul lavoro da fare, sul prezzo che era troppo alto, sul tempo che era troppo lungo per terminare il lavoro!
Alla sera la nuova forgia era stanca morta. La vecchia forgia avrebbe voluto un po’ chiacchierare con la nuova, sapere da dove veniva, forse darle qualche suggerimento. Ma la nuova forgia cadeva subito in un sonno profondo, tanto era stanca. E poi forse era così indispettita con la vecchia forgia - che se la pigliava molto tranquilla con il lavoro - che non aveva neanche tanta voglia di parlare. E poi che cosa avrebbe potuto insegnare a lei, giovane e forte, una vecchia forgia che ormai si vedeva che era stanca e non ce la faceva più tanto a lavorare? Forse i padroni avrebbero fatto meglio a disfarsene del tutto. Avrebbe potuto fare tutto il lavoro lei, sia quello pesante che quello più delicato.
Era ormai arrivata sera, ed il nonno chiuse la bottega. Le due forge vennero lasciate là dov'erano, una attaccata all'altra. Erano stanche tutte e due e si misero subito a dormire.
Il giorno dopo le due forge aspettarono per lungo tempo che la bottega venisse aperta, ma invano. Il signor Giovanni durante la notte si era sentito male e le sue forze lo stavano abbandonando. Le due forge inoperose aspettarono parecchi giorni prima di vedere un raggio di luce entrare dalla porta della bottega. Sentirono delle voci parlottare fra di loro, ma la voce inconfondibile del fabbro Giovanni non la sentirono. Il loro padrone ed amico non c’era più.
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